È facile lasciarsi sedurre dalla luce, dal bello, da ciò che luccica.
Da tutto ciò che ci attira verso un immaginario gradevole, rassicurante. Ma spesso — anzi, quasi sempre — il vero “bello” si rivela proprio nel meno bello. Nella fatica, nell’imperfezione, tanto estetica quanto emotiva. È lì che l’Arteterapia ci invita a sostare.
Un oggetto artistico può piacere o respingere. A volte, nemmeno chi l’ha creato lo riconosce come “bello”. Eppure, quell’opera — che sia una scultura, un film, un gesto tracciato su carta — contiene qualcosa di essenziale. Qualcosa che parla, che resiste, che chiede ascolto.

Nel laboratorio di Arteterapia, questo dialogo prende forma. Lì dove il malessere interiore si fa materia, immagine, suono, possiamo iniziare a trasformarlo. Ma attenzione: la luce non è sinonimo di bellezza. La luce è consapevolezza. È la capacità di vedere ciò che abita dentro di noi… per poi tornare nel buio, nel non detto, e continuare il lavoro silenzioso della resilienza.
Ti propongo un piccolo esperimento: osserva qualcosa che ti attrae, che trovi bello, appena lo tocchi, lo respiri, lo vivi diventa per un attimo parte di te. Poi, per contrasto, volgi lo sguardo verso qualcosa che ti risulta difficile incontrare. Può essere un sentiero nel bosco, una persona, una memoria, o un gesto che normalmente eviti. Fermati. Guardalo. E immagina cosa potrebbe accadere se tu lo lasciassi entrare, senza volerlo cambiare.
In Arteterapia accade qualcosa di simile. Lavorare sull’ostacolo, su ciò che fatichiamo ad affrontare, non porta necessariamente alla luce come “guarigione” o “bellezza”. Ma porta, questo sì, a una trasformazione. E per trasformare, occorre anche lasciare andare: l’idea di controllo, il bisogno di risultato, l’attaccamento al “giusto”.
È in quel lasciar andare che si apre lo spazio del possibile. E forse, proprio lì, nasce il vero cambiamento.
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